L’immagine del Crocifisso diventa l’impresa più audace
e la sfida più affascinante che un artista possa incontrare sul suo cammino
La crocifissione era l’infame e crudele pena di morte con cui nella repubblica e poi nell’impero romano si eliminavano gli schiavi colpevoli di qualche grave mancanza. Famosissima, anche perché ricordata dalla letteratura e dal cinema, è la morte di Spartaco, avvenuta nell’anno 71 a. C. La croce, simbolo e strumento di questa pena, era formata da una trave verticale, chiamata stipite, e da una orizzontale, il patibolo. I condannati venivano sospesi al patibolo mediante alcune funi o direttamente inchiodati sul legno. Molti, durante i secoli del dominio romano, furono crocifissi. Giuseppe Flavio, uno storico ebreo di cultura latina, scrive che «i soldati si divertivano a crocifiggere i prigionieri in varie posizioni e tale era il loro numero che mancava spazio per le croci e croci per le vittime» (La guerra giudaica). La morte in croce era la peggiore che si potesse immaginare. Cicerone, nella sua Orazione contro Verre, la definisce «il più crudele e orrido supplizio» e, nell’Orazione per Rabirio, aggiunge: «La parola stessa di croce stia lontano non solo dal corpo dei cittadini romani, ma anche dai loro pensieri, dagli occhi e dalle orecchie». Ma, verso il 150 d. C., comparve un’immagine (figg. 1, 2) che, almeno in parte, veniva a contraddire l’esortazione di Cicerone. Infatti, sull’intonaco di una palestra sul Palatino a Roma, fu graffito un asino in croce. Ai piedi di questo asino crocifisso appare un personaggio di nome Alexàmenos e una scritta in greco: «Alexàmenos adora il suo dio». Si trattava di una caricatura, con la quale alcuni schiavi prendevano in giro un loro collega, che era diventato cristiano, canzonandolo in quanto seguace di uno che era stato umiliato e sconfitto come un asino. Se il graffito del Palatino smentiva solo parzialmente il pensiero di Cicerone, un po’ alla volta, soprattutto sui sarcofagi, l’immagine della croce farà la sua comparsa non più come oggetto di scherno e derisione bensì come destinataria di un culto intessuto di amore e di rispetto (fig. 3): per la prima volta nella storia la croce non è considerata soltanto uno strumento di tortura e di morte, qualcosa da tenere lontano non solo dal corpo, ma anche dalla vista e dal pensiero. Perché questo cambiamento? Ci sono tante motivazioni, che la ricerca storica continua a mettere in luce. C’è un motivo, tuttavia, di immediata comprensione: è evidente che, fra i tanti che sono stati inchiodati alla croce, ce n’è uno che ha determinato una profonda trasformazione. Un inno popolare offre una stupenda spiegazione di questo cambiamento: «Da segno d’infamia in segno d’onore, morendo, il Signore la croce mutò». Ecco: fra i tanti morti sulla croce, ce n’è uno che non è uno dei tanti. È il Signore! Dunque: tra Cicerone e Alexàmenos è avvenuta la morte di Gesù di Nazareth, inchiodato ad una croce. Ma tra Alexàmenos e i sarcofagi romani è accaduto un altro evento di straordinaria importanza. Si tratta del famoso Editto di Milano, che fu proclamato nell’anno 313 d. C., appunto nella città lombarda. L’imperatore Costantino e il collega Licinio, con questo editto, concedevano a tutti i cittadini la libertà di culto. Bellissime sono le parole del testo, riferiteci dallo storico Lattanzio nell’opera Gli usi dei persecutori: «A noi, Costantino e Licinio imperatori, è sembrato che fosse giusto dare ai cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che a ciascuno paresse preferibile […] e che a nessuno sia negata la facoltà di aderire alla fede dei cristiani o di qualsiasi altra religione che ciascuno reputasse più adatta a se stesso». Parole bellissime. E modernissime! Ognuno, dicono gli imperatori, segua il cammino religioso che ritiene più vero e più coerente. Da quel momento in poi terminavano le persecuzioni contro i cristiani e la storia dell’Europa e del mondo assumeva un volto nuovo. Costantino è l’uomo intorno al quale si compie questa svolta. La sua vicenda si svolge tra storia e mito, tra paganesimo e cristianesimo, tra antichità e medioevo, tra occidente e oriente, tra Stato e Chiesa. È l’uomo dell’incontro. Ma, pur continuando ad avere il massimo rispetto per la religione pagana dei suoi antenati, Costantino simpatizzò per il cristianesimo, anche sotto l’impulso della madre Sant’Elena, e si fece battezzare: fu, così, il primo imperatore cristiano della storia. Anzi, secondo un’antica tradizione, prima di affrontare lo scontro più importante della sua carriera, la battaglia del Ponte Milvio, egli ebbe una visione: vide una croce che splendeva nel cielo e udì una voce che diceva «Con questo segno vincerai». Perciò iniziò ad adottare il simbolo della croce sulle insegne militari, seguito in questo dai suoi successori. Durante il suo impero, poi, a Gerusalemme fu ritrovata la croce di Gesù. La croce, in tal modo, perdeva il suo carattere di atroce strumento di tortura e di morte e diventava segno commemorativo di Gesù crocifisso e simbolo di vittoria sulle forze del male. I sarcofagi saranno il primo fiore di questa nuova primavera. E le croci fioriranno nelle grandi basiliche e nelle chiesette campestri, nei capolavori dell’arte e nell’umile artigianato, al collo delle persone e negli ospedali, nelle carceri dove si sconta la pena e nei cimiteri dove riposano i morti …: da segno d’infamia in segno d’onore. Per coloro che, come lo schiavo Alexàmenos, credono in Gesù Cristo, la croce è il culmine della rivelazione cristiana, perché in quell’esperienza Gesù manifesta completamente se stesso e il suo rapporto con Dio Padre e con noi. La croce, dunque, è la sintesi di tutto il mistero di Dio, dell’uomo e del mondo. Durante la sua vita terrena, Gesù intravide quell’esperienza culminante e chiamò quel momento la sua «ora». È giunta, dunque, quell’ora preparata da tutta l’eternità: per quest’ora il Figlio di Dio era venuto in mezzo a noi. La sua decisione irrevocabile era di obbedire al Padre e alla sua volontà, nelle concrete circostanze della vita e della morte. Il Padre ha infuso nel cuore del Figlio lo stesso amore che egli porta all’umanità e lo ha reso disponibile a condividere il suo progetto di salvezza. Anche la sua morte Gesù l’ha vissuta non come un assurdo fallimento, ma come il momento più alto della realizzazione di un amore portato fino in fondo. Lo stesso schema della croce annunzia il contenuto della fede cristiana: l’asse verticale indica il cammino di Dio che scende verso l’uomo per salvarlo e il percorso dell’uomo che desidera salire verso Dio; l’asse orizzontale suggerisce il duplice movimento di espansione verso gli altri e di ritorno verso un punto centrale. Ebbene, queste due linee non sono estranee l’una all’altra, ma si incontrano: la verticale della salvezza interseca l’orizzonte della storia nel centro assoluto che è Cristo crocifisso e glorioso. Noi, dunque, abbiamo visto la gloria del Figlio di Dio non solo nella grotta di Betlemme ma anche e soprattutto nella tragedia del Golgota. La rivelazione, però, non è solo conoscenza, bensì redenzione. Cristo non ci ha fatto conoscere il volto del Padre per trasmetterci una notizia, ma per coinvolgerci in una storia, la storia della nostra liberazione. La passione di Gesù è un avvenimento della Santissima Trinità. Il Padre ha consegnato il Figlio a noi e il Figlio, donandoci lo Spirito Santo, ci invita a seguirlo nell’ascolto della sua parola e nell’imitazione della sua vita. Egli prende su di sé l’immenso macigno dell’umanità con tutte le sue miserie fisiche, morali e spirituali, per liberare l’uomo e renderlo capace di vita autentica. Servo per amore, servo dell’amore: è l’abisso dell’umiliazione e dell’abbassamento.
Egli muore per liberarci dal potere che il peccato esercita su di noi, un potere che è profondamente radicato nelle nostre mentalità e nelle nostre azioni e che ci conduce ad una vita banale e vuota e ad una morte eterna. La condizione dell’uomo, infatti, è una condizione non umana. L’uomo non solo intuisce nella riflessione e crede nella fede di avere una natura decaduta, ma sperimenta nella vita quotidiana di essere lontano dalla sua propria dignità. L’umanità non è ciò che vorrebbe, potrebbe e dovrebbe essere.
Questa natura decaduta il Figlio di Dio non l’ha disprezzata prendendone le distanze, ma l’ha unita nella sua persona alla natura perfettissima di Dio ed è diventato il «Dio con noi». La sua morte è un sacrificio di alleanza e di espiazione, mediante il quale la sua salvezza ci investe e ci trasforma, il nostro egoismo viene distrutto e il suo sangue diventa sorgente per un nuovo stile di vita personale e comunitario. Cristo dà una nuova possibilità all’uomo, prospettandogli un nuovo inizio fatto di riconciliazione, giustificazione, santificazione. Come la creazione fu un atto d’amore della Santissima Trinità, così, e ancora di più, la redenzione è un atto d’amore: la morte è l’atto supremo di donazione, pieno amore e puro amore nel momento decisivo della vita, di Cristo al Padre e a noi per la nostra trasformazione mediante l’azione dello Spirito Santo. È, dunque, la storia d’amore della Trinità che trova nella croce del Figlio (il Signore!) il suo segno più grande, il suo «sacramento». L’immagine del Crocifisso, allora, diventa l’impresa più audace e la sfida più affascinante che un artista possa incontrare sul suo cammino. E testimonia che i colleghi di Alexàmenos si sbagliavano di grosso! Costantino lo aveva capito.
Vincenzo Francia