“Ecco cosa siamo e cosa dovremmo essere noi poeti: cembali che risuonano,
cavità in cui la vita si incanala e attraversandoci dona anzitutto luce e senso a noi;
e quindi, attraverso di noi, a chi è destinato a ricevere quella medesima parola.
Una grandissima responsabilità. Ma anche un dono incredibile”.
La nostra società è piena. Non soltanto di rumori e di stimoli. È piena anche di cose buone. O che sembrano tali. O che magari lo sono, ma non fino in fondo. Perché magari nascondono un retrogusto e facilitano una pigrizia che non ci aiuta.
Guardo, ogni volta che mi sposto dalla mia città, a come sono costruiti e pensati i quartieri delle migliori periferie. Generalmente hanno tutto: supermercati, uffici postali, bar, scuole, fermate dell’autobus, negozi di vario genere, poliambulatori, banche, assicurazioni, etc. tutto a portata di mano. Non c’è niente di cattivo in questo. Ma manca una cosa fondamentale: la piazza.
I borghi di una volta, le città storiche, avevano sempre – nella loro sommità, e a volte non solo in quella – una piazza. Ossia un vuoto in cui far circolare l’aria (e il pensiero; e le parole). Un vuoto da riempire ogni volta in maniera nuova, sulla base di chi ci si incontrava, di chi ci si scontrava, di chi anche semplicemente la attraversava.
La piazza è un’invenzione prodigiosa. Corrisponde all’antico foro dei romani, il luogo deputato alle decisioni che contano, ed anche alla diffusione e alla scambievolezza reciproca delle idee. Non sempre è un luogo pacifico, ma sicuramente è sempre un luogo importante in cui confrontarsi e crescere insieme. In cui addirittura diventare popolo, comunità.
Se spostiamo la piazza dentro uno studio televisivo degli anni ’70 del secolo scorso, la ritroviamo ricreata alla perfezione nei magnifici studi vuoti del regista Antonello Falqui: nessuna scenografia, un grande spazio bianco e immacolato dal cui fondo risale lo spazio un’esile figurina nera con una voce spaziale: Mina.
Un’esile figurina nera che riempie lo spazio con la sola voce e con il suo solo passaggio. Ma lo fa senza occupare tutto, lo fa delicatamente. Si impone senza imporsi. Diciamo piuttosto che crea un’attenzione, risveglia un gusto, un desiderio di bellezza. Coinvolge lasciando che lo spettatore si immerga in tutto lo spazio vuoto rimanente e si conceda a quella stessa bellezza circolante senza pretendere di occuparla tutta. Godendone con libertà.
Anche nelle canzoni si può avvertire lo stesso criterio di composizione. Anche nella musica classica, dove le pause di sospensione sortiscono lo stesso effetto: catturano e rilanciano, permettendo all’ascoltatore di farsi parte in causa oppure no. Basta poco: basta una battuta (cinque dieci secondi di silenzio) e l’orecchio si drizza, l’occhio si spalanca. Che succede? Dov’è finita la musica? Come continua la melodia? E sei già dentro lo spartito, naturalmente a modo tuo.
Torniamo invece ad oggi: entriamo in uno studio televisivo. Mina si è ritirata dalle scene televisive nel 1972 (e non fa più concerti dal 1978). Entriamo dunque sul set di uno spettacolo del sabato sera di oggi: troviamo di tutto. Scene ridondanti, persino barocche, che occupano ogni angolo possibile. Pubblico incasellato ovunque, oserei dire incistato. E poi l’orchestra, le quinte, fiori e suppellettili, etc. Come mi disse proprio Antonello Falqui in una memorabile intervista che gli feci vent’anni fa, il pieno della scena ha coperto il vuoto di pensiero e di parola. In effetti ormai i dialoghi sono fini a sé stessi, li presiede la parolaccia e il doppio senso, tutto è già dato. Gli attori si muovono alla meno peggio, parlano perché non possono tacere; e del resto “il coraggio” di un Adriano Celentano di rimanere totalmente in silenzio per non so quanti minuti, “se uno non ce l’ha non è che se lo può dare…” (Don Abbondio).
Ma anche le canzoni sono così: sintetizzatori, percussioni, coretti, effetti speciali, un martellìo sistematico di parole che sembrano dire tutto mentre – per la fretta di essere accavallate una sull’altra – giovano a non far capire niente. Non c’è più spazio per introdursi col proprio gusto, col proprio sentire, con la propria emozione. Subiamo canzoni su canzoni dalla radio, una sull’altra, una dentro l’altra. Ci fanno da ninna nanna o da accompagnamento nella vita, così come può farcene l’eco dei motori delle auto in lontananza, senza soluzione di continuità.
Montale – anche se in riferimento alla discoteca, ma il senso è il medesimo – chiamava questo fenomeno un “massaggio di massa”. Non un messaggio, semmai un anestetico. Riempire tutto, paternalisticamente dare ad intendere di provvedere a tutto amorevolmente; ma in realtà impedire in ogni modo che si risvegli l’attenzione, che si rianimi lo spirito, che ci si guardi intorno in maniera autonoma e – perché no? – giudicante.
Il risultato è quello – visibile a tutti – di un intorpidimento generale. Che ci trasborda ora qua ora là in forza di un’accidia rassegnata, piegata e piagata dalla paura di soffrire (tradotto: di non avere tutto a portata di mano, come che sia) e ben volentieri disposta a sopravvivere alla meno peggio, pur di non morire.
Lo sguardo non si alza più al cielo con tutte le sue varianti atmosferiche (e spirituali); il cielo si è chiuso sopra di noi. Ce lo traduce la tv e questo ci basta. Dalla campagna, in una notte senza luna, ci spaventa ad ogni piccolo rumore non messo in conto. Chiudi la porta, serra la finestra, abbassa le persiane. Accendi tutte le lampade. Attutisci più che puoi ogni sentire. Spegni l’audio. E piano piano spegniti anche tu.
Abbiamo ereditato dal nostro tempo la paura del vuoto. Il terrore del silenzio: che in natura non esiste, in realtà. Ma è piuttosto una pausa interiore del nostro vivere, la domanda che si innalza dal profondo, una sorta di richiamo della foresta.
Abbiamo ridotto la sapidità della nostra nuda umanità (il sàpere) al predominio della conoscenza (il sapére), quasi che quest’ultima ci consentisse di controllare tutto, di riempire tutti i vuoti, di non avere sorpresa alcuna e permetterci così di galleggiare tenendo sotto controllo la nostra esistenza e possibilmente quella altrui, fino a nuovo ordine.
Ci siamo “cosificati”. Riempiti di tutto per non correre il rischio – rimanendo cavi – di venire attraversati dal vento e di risvegliarci in una dimensione ulteriore: dove cioè la voce indica un punto più alto rispetto al nostro piccolo universo consuetudinario.
Scrive Giovanni Piana nella sua “Filosofia della musica” che perché si produca il suono c’è bisogno dell’incontro tra una cavità e un soffio: la voce umana è il prodotto dell’incontro tra la bocca vuota e il respiro. Ma anche sasso e conchiglia reagiscono diversamente, se raggiunti dall’aria.
Ecco di nuovo lo studio vuoto di Antonello Falqui, ecco di nuovo la piazza. Ecco la necessità estrema ed urgente di invertire la nostra rotta: dobbiamo puntare a farci cavi, dobbiamo svuotarci perché il respiro, il vento, il soffio vitale, lo spirito, ci attraversi e ci indichi un’altra direzione: che è molto più bella, più sana, più vera. Perché ci rivela a noi stessi e dà senso e pienezza alla nostra vita, alla nostra umanità. Ci restituisce ossigeno, ci apre alla parola. Perché se è vero che Dio ha creato il mondo per mezzo della Sua Parola, del Suo Verbo, il passaggio del respiro nella nostra cavità fa sì che ci riempiamo di Lui, che ripristiniamo il contatto con l’eterno, con l’infinito.
È quanto accade a Leopardi in quel “ma sedendo e mirando” de “L’Infinito”: ricordate la poesia de L’Infinito? ha la siepe che gli copre la vista, che gliela riempie, per così dire; “ma…”
e in quel “ma” c’è uno scatto imprevisto; uno svuotamento che è apertura fin dove “per poco il cor non si spaura”; in quello svuotamento però può prendere corpo “il vento” che “odo stormir tra queste piante”.
E succede una cosa curiosa, inaspettata: quel vento che stormisce tra le piante – scrive Leopardi – origina la mia voce, le assomiglia, la richiama. Il vento è cioè quello della poesia: la quale ha un potere superiore a quello della vista fisica. Perché il poeta ha di fronte a sé, in forza del proprio spirito, un infinito molto più ampio di quello panoramico dietro la siepe: “e mi sovvien l’eterno”, scrive; ma anche il passato (“le morte stagioni”) e il presente (“e la presente e viva, e il suon di lei”).
Il tempo fisico, che inesorabilmente accorcia il nostro pellegrinaggio terreno e di cui la siepe è uno schermo/difesa per non pensarci, ma contemporaneamente anche il sigillo del nostro limite, subisce un superamento inaspettato e fantastico: è vero, sono vuoto (“il pensier mio” annega in questa immensità) e perdo controllo sulla mia esistenza (“il naufragar”) ma mi trovo nel colmo di un’immensità luminosa, dove quello stesso naufragio mi si fa dolce.
È così la poesia: è quello che Dante, nel Purgatorio, definisce “Amor mi spira”:
I m’i son un che, quando / Amor mi spira noto, ed a quel modo / ch’ei ditta dentro vo significando.
Raggiunta la difficile arte della semplicità (perfezionare il proprio strumento umano: la propria parola, per poter servire in pienezza ciò che lo spirito attraversandoci chiede di dire), il poeta scrive una cosa fortissima: “Io sono uno a me stesso”, ossia ciò che l’Amore detta dentro di me, attraverso di me, rivela me a me stesso, sono io il primo spettatore di qualcosa che è più grande di me. Così io prendo nota, e vado scrivendo alla maniera in cui Ei (Lui, l’amore, ossia Dio) mi detta.
Ecco cosa siamo e cosa dovremmo essere noi poeti: cembali che risuonano, cavità in cui la vita si incanala e attraversandoci dona anzitutto luce e senso a noi; e quindi, attraverso di noi, a chi è destinato a ricevere quella medesima parola.
Una grandissima responsabilità. Ma anche un dono incredibile.
Filippo Davoli (Presidente della Sezione Ucai di Macerata)