L’entusiasmo per la recente riscoperta delle icone non è stato accompagnato da un opportuno processo di conoscenza della materia. Per la maggior parte delle persone parlare di icone rimane, spesso e comunque, incrociato con una conoscenza superficiale prodotta da luoghi comuni che producono un difetto di comprensione dei concetti e dei termini tecnici legati all’iconografia. Questo accade poichè nella tradizione latina non sono ancora stati pubblicati studi esaurienti che propongano una collocazione della pittura iconografica e dei termini tecnici ad essa collegati. A partire dall’inizio del secolo scorso grandi teologi ortodossi si sono ci- mentati con entusiasmo nella “riscoperta dell’icona” e ci hanno lasciato una eredità preziosa nei loro trattati. In epoca recente ricordo l’opera di Evdokimov e di Clément, cui si devono numerose opere divulgative, e i forse meno famosi Uspenskij e Alpatov, per la ricerca rigorosa contenuta nei loro testi.
Non mancano pubblicazioni sulle icone in Occidente, scritte da teologi o cultori che si sono cimentati con questo argomento. Tuttavia la “forma mentis” occidentale tende a presentare l’icona alla luce della storia della pittura, non riuscendo mai ad intercettare le sottili sfumature peculiari dell’iconografia, e soprattutto non riesce a cogliere quale nesso si possa trovare fra la riscoperta delle icone e la loro plausibilità quando vengono riproposte al culto pubblico. Questa difficoltà, legata soprattutto alla mancanza di una sintesi organica su questo argomento, pare la causa di tante valutazioni superficiali.
La “bellezza” iconografica, mi sembra fra tutti il termine più abusato e meno compreso.
Mi propongo, di conseguenza, di entrare in questo particolare argomento per chiarire alcuni equivoci, e fornire alcune chiavi di lettura circa il termine “bellezza” applicato alle icone. Mi avvalgo soprattutto dell’opera di Andrej Rublëv, massimo iconografo russo, per delineare i tratti caratteristici della bellezza iconografica.
Icone e tradizione
“Eikon”, termine greco da cui deriva l’italiano icona8, si tradurrebbe opportunamente con immagine. Tuttavia, particolarmente in Occidente, la parola “icona” si è cristallizzata nel tempo come termine tecnico per indicare un dipinto che nega le categorie figurative della prospettiva, del volume ottenuto attraverso il chiaroscuro, e la possibilità di raffigurare il soprannaturale attraverso analogie dirette con la natura (ad esempio: il cielo e i volti con sembianti peculiari di persone reali.).
Se ci atteniamo strettamente al significato peculiare del termine cogliamo come tutta la pittura occidentale seguente e comprendente l’opera di Giotto esuli dalla categoria di “icona”. Lo stesso può dirsi per la pittura religiosa dei primi secoli anteriore al Concilio di Calcedonia (451), che non ammetteva la rappresentazione di immagini mobili date per il culto e la venerazione. Occorrerebbe togliere dalla categoria “icona” anche la produzione di dipinti religiosi seguenti la riforma di Pietro il Grande a partire dal XVIII secolo in Russia e quelli prodotti nei paesi di area balcanica dopo la caduta dell’impero bizantino, che incoraggeranno il fenomeno già avviato della latinizzazione dell’icona.
La delimitazione che scelgo è volutamente restrittiva e non universalmente condivisa, ma ci permette di distinguere un dipinto a carattere religioso da una “icona” vera e propria e di ovviare ad alcuni equi- voci: quando parliamo di icone dovremmo opportunamente limitarci a considerare le immagini che a partire dall’icona del Cristo, attualmente conservata al monastero di Santa Caterina del Sinai, e risalente al VI secolo, arrivano fino al periodo precedente la scuola russa degli Stroganov del XVII secolo per la Russia e al periodo seguente la caduta dell’impero bizantino del 1453 per l’area balcanica.
Relativamente al termine “tradizione”, occorre puntualizzare cosa si intenda precisamente quando si parla di “tradizione iconografica” e attraverso quale sviluppo particolare si sia dipanata nell’arco del periodo compreso fra il VI e il XVII secolo.
Riceve sempre più consensi l’ipotesi di una derivazione delle icone dalla pittura funeraria romano-egiziana del Fayum, risalente al III secolo d.C. Le primissime icone, infatti, presentano caratteristiche simili al ritratto eseguito osservando un modello, poichè le figure sono decisamente umanizzate. E’ probabile che la più tarda reazione iconoclasta dell’VIII secolo trovi fra le cause proprio il genere peculiare di questi dipinti che tendevano a sottolineare l’aspetto umano di Gesù di Nazareth, della Madre di Dio e dei santi.
La risoluzione della crisi iconoclasta, decretata dalla “Festa dell’Ortodossia” nel IX secolo, inaugura un nuovo periodo in cui l’iconografia riceve ispirazione dall’esperienza spirituale dell’esicasmo. Le icone divengono così dipinti che rappresentano una bellezza trasfigurata, interiore, caratterizzata dalla luce che ne irradia dall’interno, a significare la luce divina increata che si effonde sulla creatura e la trasforma. Successivamente la tradizione conoscerà diverse oscillazioni che schematicamente varieranno dal tentativo di ritornare ad immagini classiche e più umanizzate e la necessità continua di ritrovare una centratura sui principi dell’esicasmo: quest’ultima corrente troverà la massima espressione nell’opera di Teofane il Greco nel XIV secolo.
L’eredità di Teofane viene raccolta dall’iconografia russa del XV secolo già arricchita precedentemente dall’attività e dagli scritti spirituali di San Sergio di Radonez. Questa pittura tende a raffigurare l’ideale, l’immagine della bellezza celeste, a ricordare che l’uomo racchiude in sé l’icona di Dio: è la pagina più equilibrata all’interno dei diversi tentativi di rappresentazione della divino-umanità, di cui Cristo è il prototipo. Ad essa sono legati i nomi di Prochor, Danil Cernyj e Andrej Rublëv.
L’opera degli iconografi moscoviti viene raccolta da Dionisij (+1505), che mostra di non riuscire più a dominare l’equilibrio che caratterizzava le icone del periodo precedente: le sue figure sono esili ed allungate, e l’aspetto spiritualizzante riceve una forte sottolineatura. Questo declino già accennato porterà alle icone della scuola degli Stroganov (XVII sec.) che si limiteranno ad alludere al mondo celeste, ma non saranno più in grado di rappresentarlo, e ridurranno la venerazione dovuta ad un’icona ad uno sguardo effimero e compiaciuto del disegno e degli ornamenti minuziosi e raffinati.
La panoramica sommaria del cammino percorso attraverso i secoli dalla tradizione iconografica, suggerisce l’idea che il tentativo di rappresentare l’immagine di Cristo sia in realtà legato a due problematiche strettamente collegate. Da una parte la complessa riflessione che ha mediato le categorie per definire correttamente la divino-umanità e il suo delicato equilibrio20, dall’altra l’acquisizione di canoni estetici peculiari per rappresentarla. Le icone sono relativamente diverse fra loro, soprattutto quando le paragoniamo attraverso la disomogeneità rappresentativa delle epoche e delle aree geografiche, ma oscillano sempre entro uno spettro di rappresentabilità comune. La tradizione cercò sempre di evitare due estremi: una rappresentazione iconografica troppo incline all’aspetto umano portava il peso di una bellezza sensuale che impediva la contemplazione, fermando lo sguardo all’immagine senza rimandare alla contemplazione del soprannaturale, mentre una rappresentazione eccessivamente “spirituale” ed esasperatamente stilizzata rischiava di formare immagini che non riconduce- vano ad una corretta teologia dell’incarnazione.
Icone e bellezza
La persona che ha una certa dimestichezza con la pittura occidentale di carattere religioso, avverte, spesso immediatamente, un rapporto controverso fra icona e bellezza. Normalmente questo suscita interrogativi irrisolti e attorno a questo rapporto si concentrano generalmente le domande del neofita che si accosta a questo tipo di immagini.
Occorre puntualizzare che l’icona è un’immagine deputata al culto liturgico: non è carica di una bellezza sensibile e immediatamente fruibile, perché lo scopo peculiare per cui viene dipinta è quello di rimandare il più direttamente possibile al mistero di Dio, senza indugiare troppo sulla godibilità dell’immagine. Per questo motivo la rappresentazione mantiene sempre un certo pudore per non legare lo sguardo all’immagine e cerca di presentarsi come una “finestra” che apre e indica la dimensione soprannaturale.
Data questa premessa, occorre valutare quale sia il rapporto che intercorre fra immagine reale e immagine rappresentata in un’icona, per comprendere a fondo che cosa si intenda per “bellezza” iconografica applicata ad una rappresentazione di Cristo. Vi è una idea ingenua che tende a collegare l’icona di Cristo con la sua immagine reale, come fosse un “ritratto” dal vero. Un’immagine che rappresenterebbe in modo diretto la bellezza del più bello fra i figli dell’uomo.
Questo è un primo equivoco da risolvere: i cristiani delle prime generazioni hanno cercato di “dimenticare” la fisionomia peculiare del Cristo (l’eikon di Gesù di Nazareth), anche per non essere considerati alla stregua dei “pagani” che adoravano immagini che rappresentavano personaggi singolarmente identificabili (l’eikon di Caligola ad esempio).
Non è così paradossale affermare che se un cristiano o una comunità cristiana del primo secolo avessero posseduto il lenzuolo mortuario, la cosiddetta Sindone di Gesù, lo avrebbero giudicato di scarsa importanza. I testi neotestamentari, infatti, scritti alcuni decenni dopo la morte di Gesù, quando cioè la fede iniziava ad essere tramandata dai testimoni oculari alla seconda generazione che non aveva conosciuto visibilmente Gesù di Nazareth, esprimono bene questa problematica.
Essa trova la sua migliore espressione nel Vangelo di Giovanni, in particolare nell’episodio dell’apparizione a Tommaso (Gv 20, 19-29): Gesù gli disse: “Perché mi hai visto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”, e nel passo paolino di 2Cor 5,16-17: “Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”. L’idea comunicata sembra essere questa: occorre superare l’apparenza (eikon-icona) in relazione alla conoscenza di Cristo e interiorizzare la sua persona attraverso l’annuncio (kerygma) della Risurrezione che si concretizza intimamente nell’esperienza spirituale vissuta e celebrata nella comunità dei credenti. E’ questa la vera “visione” e “conoscenza”: secondo gli autori del Nuovo Testamento, occorre lasciarsi alle spalle l’immagine di Cristo recepita direttamente attraverso la vista e riappropriarsene attraverso l’annuncio e l’esperienza spirituale.
La descrizione iconografica di Cristo è l’erede di questa mentalità già trasmessa a partire dalle narrazioni evangeliche. L’antichità non conosce ritratti di Cristo perchè non si voleva che i cristiani fossero legati ad un’immagine, come i pagani. I primi cristiani non rappresentavano il Cristo e non era una loro esigenza: l’immagine di Cristo è legata infatti alla esperienza della apparizione (un’eikon riappropriata attraverso il kerygma). Paradossalmente fu ribadito che anche un testimone oculare doveva riappropriarsi della conoscenza di Cristo per via di apparizione, tralasciando la visione “secondo la carne”.
Data questa premessa fondamentale occorre anche aggiungere un particolare ulteriore legato al retaggio culturale mediato dal neoplatonismo. Quando un iconografo si accingeva a dipingere un’immagine di Cristo, si avvicinava a questo compito con un pudore immenso: si trovava a disagio a rappresentare una materia con una consistenza e un significato immediatamente positivo, per cui difficilmente avrebbe rappresentato una raffigurazione umana in analogia con quello che poteva mutuare da una osservazione di un modello reale. E’ per questo motivo che la pittura iconografica non si presenta mai come una raffigurazione mutuata dalla realtà, ed è anche per questo motivo che le icone sono di così difficile lettura immediata per un osservatore contemporaneo.
Un’icona di Cristo è normalmente una figura appiattita senza la cosiddetta terza dimensione, non ha un modellato costruito con la tecnica del chiaroscuro, non esprime passioni e stati d’animo particolari, non esiste neppure uno sfondo che riproduca una ambientazione reale come una stanza o un paesaggio, ma una lamina d’oro che indica la dimensione soprannaturale. Forzando i termini si potrebbe dire infatti che l’iconografia è una pittura astratta espressa in maniera figurativa: è un dipinto che non nasce mai da una osservazione della realtà che viene poi trasposta in pittura, ma nasce da una esperienza spirituale che comunica una visione interiore e che viene poi “tradotta” figurativamente.
Può aiutare un confronto con un pittore occidentale. Giotto rappresenta il Cristo prendendo un uomo concreto come riferimento diretto; nel rappresentarlo, lo spiritualizza perfezionandolo; ad esempio: arrotonderà maggiormente l’iride nell’occhio, assottiglierà il naso e lo renderà di statura più alta della media. Siamo di fronte ad un utilizzo convenziona- le della pittura figurativa. Nell’iconografia, al contrario, prima viene una esperienza di Dio che si “materializza” nella interiorità del pittore che ne trasforma intimamente e progressivamente l’esistenza; segue poi la “traduzione” pittorica, che esprime soprattutto questa subordinazione delle leggi della materia e le rielabora a partire dalla comprensione spirituale.
È questa la bellezza peculiare di un’icona: essa appare bella nella misura in cui trasmette l’immagine spirituale di una figura, trasformata dall’azione riplasmatrice della divinizzazione. Non esistono analogie di- rette con la bellezza sensibile dell’arte figurativa convenzionale, perché è totalmente altro il presupposto che determina l’iconografia. La pittura figurativa segue un itinerario che sale dall’osservazione della figura fino alla raffigurazione ideale, nell’iconografia la visione interiore scende mutuando forme e figure reali e le trasfigura in immagini date per il culto e la venerazione. Per questo si può dire “bella” soltanto un’icona che scaturisce da una visione soprannaturale e viene tradotta opportunamente in un’immagine affinchè sia bellezza che salva chi la venera, introducendo l’orante nella liturgia e santificandolo. Potremmo dire ancora meglio che “l’icona è bellezza che genera bellezza interiore”, di fatto comunica e apre l’osservatore che la venera all’esperienza del Cristo risorto vissuta nella Chiesa.
Don Gianluca Busi