Giorgione – l’Oltre della bellezza

Giorgione – Autoritratto

Perché inoltrarsi ancora nel Maestro di Castelfranco, di cui si è detto molto e molto si dirà ancora -figura sotto certi aspetti mitica e romantica, inesprimibile e quasi impossibile da riconoscere? Di fronte alle sue opere – quelle sicure, rare – e al fenomeno artistico che da lui deriva- il cosiddetto “giorgionismo” – si resta da una parte stupiti per il suo stesso stupirsi davanti ai soggetti che tratta e dall’altra pervasi da un senso di mistero. Come se egli si nascondesse. O parlasse con voce così sottile nei suoi lavori che soltanto un orecchio ascoltante” può, oggi, dopo cinque secoli, coglierne il flusso poetico vero.

Giorgione sembra un artista che faccia scendere una bellezza divina soavemente sulla terra, la incarni in natura e in forme umane e che nel suo breve percorso vitale e artistico riesca a trasmettere qualcosa di superiore che appare tuttavia semplice, facile: anche se in verità non è né semplice né facile. Ma questa è una delle sue magie: far sembrare ciò che rappresenta avvolto di una vita talmente fascinosa che quasi non ci rendiamo conto che essa sfugge per portarci a salire – o meglio ad entrare – su un piano diverso da quello cui siamo abituati.

In Giorgione avviene quasi un giro armonico trinario: lo spazio-tempo genera il colore-luce e da questo incontro-dialogo deriva o meglio nasce la bellezza densa delle sue opere, che supera lo stesso soggetto e gli dà unità. Non che questo “gioco” sia cosciente in lui: Giorgione non è un filosofo. È un artista, un creatore la cui fiamma interna si esprime limpidamente nei soggetti dipinti, anche quelli più usuali, che siano ritratti o madonne. Ma cosciente sembra certo è la volontà di dire una parola nuova. Ed è questo un percorso tutto da scoprire, che giustifica ancora il parlare di lui attraverso le sue parole, cioè le sue opere.

Gli amici di fine Quattrocento

Venezia in quegli anni è una fucina di talenti il cui operato ovviamente genera un reciproco influsso fra gli artisti insieme a quello di presenze italiane di passaggio: Leonardo, i Ferraresi e gli Emiliani, Antonello e il Perugino, senza dimenticare i Nordici come Memling, Bosch e Durer. In città, oltre ai Vivarini, sono attivi pure Cima, Bellini e Carpaccio.

Il tempo dell’idillio scandisce le Sacre Conversazioni di Cima da Conegliano, prive di qualsiasi dolore e invase da un sentimento di oasi pacificante da essere costantemente una consolazione per gli occhi e il cuore. Il paese sul colle – la città natia -, i monti, le forre e le acque brillano di vita. I suoi santi, come l’Angelo di Parma, sono invasi da una bellissima dolcezza nella luce sempre trasparente. Nei suoi lavori Cima fa respirare l’uomo che sta nella natura come non un dominatore ma come la presenza che dà serenità a tutto. Il clima di Cima è virgiliano, il Virgilio delle Bucoliche o, se si vuole ovidiano, come nello stupendo Endimione di Parma, di un classicismo mite e temperato.

Giovanni Bellini si pone con maggior sensibilità su questo percorso, per lui molto lungo e con varie tappe arrivando ad una liricità talmente limpida e spirituale da improntare la natura e l’uomo. Partito dall’archeologia di Mantegna (Pietà di Brera), vicino al linearismo duro dei Vivarini per un certo tempo, sensibile ad Antonello (Pala di san Giobbe, Venezia), finirà in colloquio con Giorgione (Donna allo specchio, Vienna), ma secondo il proprio stile, aprendo lo spazio alla visione come nella Pala di san Zaccaria o in quella di san Giovanni Crisostomo. Giovanni è un poeta che aspira alla armonia universale, le si avvicina e la intuisce come assoluta assenza di dolore con un cromatismo “musicale” e qualche cosa di sacro, cioè di misteriosamente vicino, anche in opere non religiose come l’epifanico ritratto del doge Loredan a Londra.

Vittore Carpaccio è distante dai due amici e anche da Giorgione. È un narratore fantasioso, che fa del passato una celebrazione attuale di Venezia nelle Storie di Sant’Orsola. Brillante e decorativo, gioioso e avventuroso, Carpaccio ama creare e ricrearsi in un mondo di favola felice dove non trascura il realismo e il colore turgido, ma lascia scorrere la sua vena in un racconto epico-cavalleresco di notevole fascino sotto la più brillante – e “marina” – luminosità possibile. Ma non è insensibile ad una sorta di realismo nordicheggiante e petroso, come nella Pietà di Berlino. Insensibile invece è alle ricerche di Giorgione.

Le opere di Giorgione

La densità del sentimento e il tono del silenzio – un silenzio ascoltante e parlante – caratterizzano le opere più sicure del giovane provinciale – Zorzi da Castelfranco, detto Giorgione – esploso artisticamente nella capitale veneta, più vicino al collezionismo privato che alla dimensione pubblica nelle commissioni, cosa che spiega la difficoltà di conoscere oggi i soggetti di alcuni suoi lavori, la cui datazione rimane talora incerta.

La tavola della Madonna e santi di Castelfranco, tradizionalmente vicina a quelle di un Cima, di Bellini e di un Lorenzo Costa, ha tuttavia una componente di novità. Essa non risiede solo nel trono altissimo dove la Madonna mesta e sola presenta il Bambino e nemmeno nell’isolamento psicologico dei due santi in basso e neppure nel paesaggio così trepidante alle spalle- una trasfigurazione dal vero resa in termini idilliaci -, ma nella densità del colore dove anche le ombre sono calde, nel raccoglimento in un mondo tutto interiore della scena dove appunto è il silenzio a farsi voce di un sentimento potente e dolce. È la mestizia per un giovane morto troppo presto – il guerriero Costanzo cui è dedicata la pala – che investe di nostalgia il paesaggio e i santi. È una trepidazione senza sospiri, forte e soave che forma la cifra del lavoro. C’è solitudine nei personaggi, eppure la tavola esprime una coralità come nell’ultimo Bellini, ma più delicata, evanescente perché i colori ricchi sfumano nella luce come la natura animata di figurine e di acque sotto un cielo vasto come in Perugino e Costa, ma da loro diverso per sostanza: cioè per anima calda e vibrazione atmosferica.

 

È una sensibilità, un atteggiamento spirituale prima che stilistico nella emozione raffinata della Natività di Washington. Pittura di tocco nei gialli e negli azzurri, di un “paese” serotino ancora chiaro e distinto – come nella pala di Lorenzo Lotto ad Asolo – che si affaccia come co-protagonista, è opera di tenerezza e di raccoglimento. C’è una luce limpida – luce del sentimento – che si sparge composta e serena, dai sassi alle case, dalla grotta ai personaggi alle piante, tutto è in adorazione del Bambino, come una natura che “sta” lucente, immota, davanti alla scena della Nascita. Rimane un qualcosa di misterioso, di incomunicabile pur nella apparente chiarezza dell’insieme, qualcosa di non rivelato, da scoprire.

 

È appunto quel velo di mistero, di rivelazione- non-rivelazione che avvolge il Ritratto Giustiniani a Berlino. Il giovane dal corsetto viola tenero e dai capelli morbidi si sporge dal davanzale, secondo l’uso fiammingo, ci guarda. Gli occhi densi e scuri tradiscono timidezza, sospensione, ricerca di affetto, di comunione. Una emotività titubante, eppure desiderosa di un colloquio che sia un silenzio parlante ed ascoltante. Giorgione apre una porta entro la quale entreranno con maggior emotività Lotto e maggior aggressività Tiziano. Si avverte la dolcezza ombrosa adolescenziale, riservata ma con una decisione sottesa, ancora celata nella trepidazione della luce.

 

Sono le componenti della ritrattistica del maestro. Il Ritratto di donna, detta Laura, di Vienna – sia una poetessa, una cortigiana o un regalo di nozze, come d’uso -, vede una femminilità di tre quarti dal tono sensuale ma non troppo esplicito, come accadrà in Tiziano. La donna avvolta in una pelliccia mostra un seno scoperto, ha gli occhi limpidi, il volto florido, guarda lontano come volesse essere vista e osservata a lungo per poi potersi scoprire. Giorgione non rinuncia alla possibile sorpresa in quel 1506, una delle rare datazioni delle opere del Maestro. Laura vibra di carne e di pensiero, è una umanità vera, reale. Si sente il sangue che scorre ma è tenuto a freno. Giorgione nonostante il calore della pennellata, la nasconde in parte, la lascia indovinare: è vicina-lontana nell’unità di tempo-spazio, luce-colore. È il suo modo di indicare, come farà Raffaello, l’”oltre” della bellezza.

 

Si ritrova questa atmosfera in grado assai più vasto nella tela di un Giorgione ampio, solenne e timido al tempo stesso, stupito e incantato come i Tre Filosofi di Vienna (1504?) – magi o legislatori? – “due ritti et uno sentado” sulla soglia di una caverna ombrosa. È la meraviglia dell’alba, del sorgere del sole, cioè della vita.  La natura, il cosmo non è un dettaglio, un accompagnamento di un episodio, ma una “persona”. L’alba è descritta con commozione nella luce, nelle ombre tra gli alberi, i monti, le case in trasparenza: tutto è sottile, quasi un fantasma che sfuma in colori luminescenti, visionari, eppure densissimi.  Il senso del mondo che si risveglia diventa vivo nella sinfonia cromatica accesa e fuggente al tempo stesso, come in Leonardo. Il colore crea persone, cose, dai sassi agli alberi, dalle forre alle colline ai cieli, ai tre “filosofi” di tre diverse età che contemplano soli e insieme accanto alla caverna il miracolo di un nuovo giorno.  È la pienezza dell’arte giorgionesca dove il mistero appare come visione affascinante, libera, da scoprire e da godere: ciò che esiste è bello, è armonia. Non c’è alcun dolore, non avrebbe motivo di esistere. È la poesia lirica che rimanda agli echi di un Virgilio e di un Petrarca ma con sensibilità ora più accesa, e moderna. Una epifania di luce-colore-forma del tutto nuove. Tiziano, Sebastiano, Palma, Romanino, Savoldo e   molti altri impareranno.

 

Nella Tempesta (1507?) a Venezia, il pittore sembra non solo esser entrato lui stesso nella natura, ma porta dentro chiunque voglia sentirsi “parte” di un fenomeno ricorrente, il temporale estivo, vibrante come l’aurora.  Il soggetto, per quanto tuttora irrisolto, non toglie nulla alla bellezza superiore della tela. Piccola di dimensioni – dipinta per gente colta – ma immensa come forza poetica.

Osservata di lontano, essa, con ”il soldato cum la cingana” ( il soldato e la zingara), come la descrive il contemporaneo Michiel,  appare una scena aperta, gli alberi a fare da quinta, mentre l’occhio si posa dalla donna allattante e dal giovane alabardiere fino al ponte, per chiudersi nel temporale, negli alberi lucenti  e nel lampo abbagliante.

Il tempo si ferma. Giorgione fissa la voce della natura e dell’uomo con la calma di un evento che si ripete nel tempo. Per questo, il giovane, pur nella tempesta, accenna ad un sorriso a fior di labbra, un riso particolare, frutto di un equilibrio interno misterioso come una grazia. Questo sorriso è il fratello della Gioconda di Leonardo, e di quello dei kouroi e delle korai greche. È il riso dell’uomo in perfetta armonia con la creazione, nella innocenza totale. Contempla forse il giovane nella donna la madre di un suo figlio a dire che la vita è sempre fervida e creatrice nella natura e nell’umanità?

Il pennello fa sussultare le fronde degli alberi, i riflessi dell’acqua sotto il ponte, la scia delle mura e delle case imbiancate dal lampo: brillii e trasparenze, sentimenti ed emozioni seducenti. La donna- forse la stessa modella della Laura – ci guarda e ci trafigge: emozione, ansia di dialogo, un sentimento ineffabile. Giorgione come sempre dice e poi si ritrae. Rimane certa l’emozione che la lucidità infinita di questo fenomeno “panico” suscita in ogni istante nuovissima. Da qui alle nature atmosferiche dell’ultimo Tiziano il passo è aperto.

 

La piccola donna della tela diventa poi solenne, ampia nell’affresco della Nuda dal Fondaco veneziano, rossa di carne viva, palpitante come un fuoco. È una forza che si scioglie, si libera e si presenta monumentale in una evoluzione degli ultimi anni del pittore. Presenza forte, di una fisicità prorompente, sicura, una volta tanto non timida. E’ come se Giorgione avvicinandosi alla sua fine- inconsapevole – si volesse sciogliere e ”dire” l’umanità in primo piano con tutto il sentimento.

Accade nel cosiddetto Ritratto Terris di San Diego, opera del 1510: un volto ampio, una pennellata soffice e ombrosa, due occhi che vengono da lontano e ci guardano, una umanità forte e dolce.

È come il Cristo portacroce di San Rocco a Venezia, patetico tra figure oscure, che apre ad una emotività più forte del solito, anche se controllata. Eppure, qualcosa di questi occhi, di queste anime, ci sfugge. Giorgione si è fatto più esplicito, certo, ma la sua natura delicata e forte rimane trattenuta nel tono cromatico raffinato. L’equilibrio trinario della sua arte resta intatto. Giorgione non esce da questi confini, caso mai li allarga.

 

Ecco allora la straordinaria poesia della Venere di Dresda, lasciata da lui incompiuta e terminata con colore aggressivo da Tiziano. Il nudo incantevole disteso, sogna. È un corpo vero eppure idealizzato da una stesura calma, pacificante, si direbbe “musicale”. Morbido e lucente propone un tipo di bellezza soave, contemplativa e affascinante. È un corpo silenziosamente parlante, una “presenza”, con il viso perduto nella più tersa pace. La tela è piccola ma la figura è monumentale, perché grande è il sentimento che la contiene e che vuole esprimere: l’amore come voce la più armoniosa della natura che in lui viene unificata e compresa. Un’opera di dolcezza senza fine, di gioia del contemplare un corpo perfetto, vitale ma che non è solo corpo: è un “io” vivo, una armonia infinita, racchiusa in una creatura melodiosa, nella più intensa pace ed unità con tutto ciò che le sta intorno. Tiziano, Palma ed altri raggiungeranno solo raramente questa dimensione.

 

È la medesima aria che si respira nel Concerto campestre del Louvre, ideato da Giorgione – e finito con toni più accesi da Tiziano. La natura è musica, armonia suprema. Due giovani suonano, due ragazze nude ascoltano immersi nell’estate più intensa. Corpo e anima, natura ed eternità si incontrano e concertano nella ricchezza del colore e nel crepitare della luce l’incendio del sentimento. L’esuberanza di Tiziano ha in parte soffocato il lirismo giorgionesco, la sua finezza. Tuttavia in questa che è forse l’opera estrema l’orizzonte si è enormemente allargato: uomini e natura sono scoperti insieme nella vita concepita come musica “parlante e ascoltante” in totale unità. Le generazioni successive lo esploreranno ancora di più.

Mario Dal Bello