Il dramma di Verdi è il dramma di Giobbe

Ritratto di Giuseppe Verdi dipinto da Giovanni Boldini

 

È un fatto: il dolore e la morte accompagnano l’uomo e da sempre nella musica si sono fatte domande e si sono cercate, e talora trovate, delle risposte. Ci hanno provato, tanto per citare alcuni nomi, Pergolesi e Cherubini, Mozart e Rossini, Brahms e Britten e Verdi.

La sua Messa da Requiem, che abbiamo ascoltato in una esecuzione indimenticabile al romano Teatro dell’Opera – di cui parleremo più sotto, anno 1874, nata per celebrare Manzoni, è uno di quei lavori monumentali ed intimi al tempo stesso in cui l’uomo Verdi, non solo l’artista, affronta ancora una volta il problema che attraversa tutta la sua produzione: il “perché” del dolore e della morte.

Qui è Verdi che parla, discute, attacca e poi forse si arrende a Dio, un Dio maestoso e terribile, giudicante e misericordioso quale era quello che gli egli conosceva. E lui, Verdi, è un Giobbe che chiede, implora, soffre e alla fine attende. Che cosa? Una risposta. Il finale bellissimo con gli ottoni e gli archi lenti e piani dopo il focoso Libera me è come una finestra aperta in attesa di una luce desiderata da sempre. È come se l’uomo dopo agitazioni, tormenti, chiaroscuri che ricordano Michelangelo e Caravaggio ma anche Beethoven, si arrendesse a qualcosa-qualcuno di trascendente in attesa di pace.

Non è certo un’opera ”confessionale” il Requiem nè liturgica in senso stretto, anche se usa i brani della messa funebre. Ma è un teatro dell’anima e non poteva essere diversamente. L’incipit in pianissimo, sottile, implorante pace – requies – quasi impaurito, è folgorante nella sua icastica semplicità. Verdi invoca pace in ogni sua opera. Poi implora il perdono fino allo scatenamento di quel Diers irae che è un terremoto apocalittico: la fine del mondo, quella fine del mondo che è la morte per ciascuno.

Ma il Requiem non è solo il Dies irae, il Rex tremendae maiestatis degli ottoni. C’è un momento di liricità assoluta, di estasi, di una bellezza sconvolgente: nell’Offertorio è la pagina “Hostias et preces” sul tremolo di archi lontanissimi, trascendenti come in una sinfonia di Bruckner. Si apre la dimensione spirituale in cui l’umanità intera alza le braccia in preghiera in una delle più pregnanti melodie verdiane, affidata al tenore e al basso. E se il Sanctus è una folata di vento angelico in scrittura contrappuntistica, il Libera me ancora terrorizzato si declina infine in quella requies che è “riposo continuato” come dice la parola stessa: attesa di pace.

L’esecuzione romana è stata diretta da un Michele Mariotti intimamente coinvolto, ispirato, attentissimo come sempre ai dettagli strumentali e vocali senza perdere lo sguardo sull’insieme. Fra le tante bellezze, ne citiamo almeno alcune: lo “strappo” in forte-pianissimo degli archi nell’Hostias e poi il canto dolcissimo, preciso, appassionato del tenore Stefan Pop -da brivido – e del basso Giorgi Manoshivili, la dolente marcia funebre dei violoncelli nel Lacrimosa, il duetto del mezzosoprano Yulia Matochkina e del soprano lucente Eleonora Buratto nell’Agnus Dei, oltre al coro molto emotivo con una orchestra “cantante”. Accenti nuovi, tocchi rivelatori, ancora una volta. Quando un complesso- artisti coro direttore – è unito, l’arte si svela per quello che è: novità senza fine, vita in questo caso del grande cuore umano di Verdi.

Prof. Mario Dal Bello