Molte persone si interrogano sul motivo per cui una specifica risposta compare in cima ai risultati di una ricerca su Google e quali criteri determinino tale posizionamento. Assistiamo con stupore a una rapida omogeneizzazione di prodotti culturali poco significativi, premiati dagli algoritmi.
Qualche giorno fa, ho avuto una conversazione interessante sull’argomento con un amico, il quale mi ha raccontato di aver dedicato anni alla realizzazione di video per il suo canale YouTube, ottenendo però scarsi risultati in termini di interazioni e visualizzazioni. Tutto cambiò un giorno, quasi per caso, quando caricò un video girato durante un suo viaggio in Colombia, nel quale un pulitore di scarpe lavorava con cura su un paio di mocassini per oltre 20 minuti. Questo video ottenne rapidamente migliaia di visualizzazioni e commenti, superando di gran lunga tutti i suoi altri contenuti culturali, frutto di anni di studio, due lauree, l’assistenza di videomaker professionisti e notti intere dedicate al montaggio. Scoprì ben presto che non si trattava di un caso isolato: ogni video riguardante pulitori di scarpe ottenne ottimi risultati di engagement. La tentazione di dedicarsi esclusivamente a questo tipo di contenuti diventò irresistibile, considerando gli introiti certi dovuti alle inserzioni pubblicitarie.
Non abbiamo ancora riflettuto abbastanza sulla cosiddetta “MEDIOCRAZIA”, una sorta di antimeritocrazia, il suo alter ego. È ormai noto che gli algoritmi possono influenzare opinioni, modellare comportamenti e mantenere lo status quo.
È un dato di fatto che i video di successo sulle varie piattaforme social, come TikTok, siano spesso banali e omogenei. TikTok è stato definito il primo talent show al mondo guidato da un algoritmo, ma col tempo ha premiato sempre più la mediocrità rispetto al talento, incoraggiando contenuti sempre più uniformi, prediligendo lo “Show” al “Talent”.
Rimani basito quando vedi che una foto (o un video) dai contenuti inesistenti o persino infimi e beceri, riceva più interazioni di un progetto per il quale sono stati investiti tempo, fatica, denaro e ispirazione. Tra i TikToker più famosi c’è chi ha raggiunto il successo semplicemente guardando la telecamera e facendo ciondolare la testa, o chi è salito sul podio delle Star indiscusse del web, prendendo a pugni l’aria…insomma, non fanno nulla di particolare, ma lo fanno molto bene su TikTok.
Chi tra i giovani in cerca di riconoscimento, anche economico, sarà ancora disposto a studiare per oltre 20 anni, 10 ore al giorno di pianoforte o di disegno, quando tutto sembra favorire la mediocrità, che paga molto di più da troppi punti di vista?
Già Karl Marx, nelle sue analisi sociologiche ed economiche, intuì questo fenomeno. Il salario ha reso i lavoratori insensibili al contenuto stesso del lavoro. Troppi mestieri, oggi, si sono svuotati delle competenze generate dalla passione e dall’impegno.
Forse non ci rendiamo conto del rischio che le nuove generazioni si impegnino nel diventare famose o fare soldi, fuori da ogni discorso di merito, magari facendo qualcosa di banale o persino stupido su un social network, spingendosi fino a considerare fesso, chi si impegna con sacrificio e rinunce, per qualcosa che oggi, grazie al web, si può ottenere senza tanti “inutili” sforzi. Il pensiero, condiviso da molti, è quello di approfittare, cercando una “facile svolta” per “fare il botto”.
È sotto gli occhi di tutti: la maggior parte dei TikToker di successo non ha molto da dire e se anche ne avesse, è probabile che i loro agenti non darebbero loro il permesso di condividerlo sui social, in quanto risulterebbe controproducente nell’ottica di controllo del “Grande Algoritmo”.
Fino a qualche anno fa, facevamo affidamento su mediatori umani, esperti in determinati settori, per le nostre scelte. Ora, questi mediatori sono stati sostituiti da piattaforme digitali basate su algoritmi che decidono per noi cosa ascoltare, cosa vedere o come arredare casa. Questo cambiamento ha reso più accessibili una vasta gamma di contenuti, ma ha anche spinto i produttori culturali verso la via più facile, quella dell’engagement garantito dagli algoritmi.
E qui giungiamo al punto che merita una seria riflessione: è ormai evidente che gli algoritmi non sono operatori indipendenti, ma riflettono scelte e interessi umani. Siamo ben lontani da una programmazione computazionale oggettiva, universale o neutrale; tutto il contrario, le decisioni degli algoritmi sono frutto di un processo di valori volutamente assegnati dai suoi programmatori.
L’impatto sulla realtà socio-politica ed economica è plasmato da esseri umani che risentono di questo processo di valori. L’algoritmo è evidentemente dipendente dalle logiche delle Governance, per le quali persegue obiettivi precisi e mirati, prestandosi al gioco.
Gli algoritmi che dominano la nostra quotidianità iper-connessa sono vere e proprie armi di condizionamento di massa, dall’immenso valore di scambio, tanto che qualcuno è arrivato ad affermare che chi oggi governa l’algoritmo, governa il mondo.
L’inquietante domanda che a questo punto dovrebbe sorgere spontanea è questa: a chi conviene l’appiattimento pervasivo che sta avvenendo nella cultura? Chi beneficia davvero di tanta distrazione, di tanto conformismo e mediocrità?
Risulta plausibile che determinati soggetti che detengono il potere economico o politico abbiano interesse a mantenere e consolidare il controllo attraverso l’uso di algoritmi che invece di favorire la conoscenza, favoriscono la mediocrità e l’ignoranza?
Mi ritorna alla memoria un triste aforisma attribuito ad Adolf Hitler: “La fortuna dei governanti è quella di avere un popolo che non pensa”. Da sempre, la distrazione, il conformismo e la mediocrità sono stati utilizzati come strumenti per mantenere le masse disinteressate o passive rispetto ai problemi reali e alle questioni importanti, consentendo così a determinati soggetti di agire senza opposizione significativa.
Lungi dal voler alimentare teorie complottistiche, comunque la si voglia pensare, mi pare cruciale e urgente promuovere una maggiore consapevolezza e trasparenza riguardo a questi meccanismi di controllo, nonché incoraggiare il dibattito pubblico e la partecipazione democratica per garantire che gli algoritmi siano utilizzati in modo responsabile e nell’interesse del benessere collettivo. L’educazione sul funzionamento degli algoritmi e sulle loro implicazioni può aiutare le persone a prendere decisioni su come interagire con la tecnologia e ad aprire gli occhi sui rischi a cui sono sottoposti quotidianamente i nostri figli.
In un’epoca dominata dall’intelligenza artificiale e dagli algoritmi, è cruciale convocare il pensiero critico per contrastare questi insidiosi pericoli e favorire invece le nuove infinite possibilità, che un buon uso della tecnologia potrà garantirci!
E’ il tempo dell’ascolto e del confronto: “Convocate il pensiero”, diceva Paolo VI, “convocate le menti”, sollecitava Dossetti, “convocate gli artisti”, aggiungo io. Solo con loro potremo riaprire un dibattito alto, di idee, libertà e visioni!
Gli artisti possono rispondere a questa sfida con un supplemento di umanità, bellezza e spiritualità, contrapponendosi alla perdita spirituale che minaccia la nostra società come un macigno.
Come ha scritto Antoine de Saint-Exupéry: “Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”.
Questo è il compito urgente, risvegliare la nostalgia per il mare vasto ed infinito, la nostalgia di verità, giustizia, senso e bellezza che ogni uomo cerca. La dignità dell’artista sta nel suo dovere di tenere vivo il senso di meraviglia del mondo, “il mondo non morirà per mancanza di meraviglie, bensì, per mancanza di meraviglia”.
Francesco Astiaso Garcia
P.S.: Non correte ora, per favore, a caricare video di pulitori di scarpe su YouTube.