Musica dello Spirito all’Accademia Santa Cecilia tra Mendelsshon e Bruckner.
La musica è fatta così. Non devi analizzare, ma lasciarti portare. Non devi essere teso, ma lasciare aperte le porte del pensiero, se si vuole dell’anima. Così fluisce dentro di noi qualcosa che sa di stupore, indefinibile come appunto è la bellezza.
È quanto succede, ed è successo, ascoltando a Santa Cecilia il Salmo 114 op. 51 di Felix Mendelsshon: musica felice, chiara per coro e orchestra. Nessuna incrinatura, nessuno sforzo. Mendelsshon è così: tutto scorre limpido perché egli possiede la chiarità dentro di sé. E allora il coro ceciliano, cristallino, splende e splende l’orchestra sotto la guida serena di Antonio Pappano in una pagina spirituale senza enfasi, sottile come un velo e al contempo forte come è la parola biblica. È la cifra di Mendelsshon e del suo “romanticismo felice”: il sentimento come luce pura, che scivola via leggera perché l’anima è leggera.
Poi, c’è la Settima Sinfonia di Anton Bruckner. Un altro mondo, quello dell’umile organista austriaco, spesso dileggiato, incompreso e lui stesso capace di scarsa autostima. Tuttavia capace di capolavori sinfonici a fine ‘800 che sono autentici volumi di spiritualità. Bruckner non è un cristiano ingenuo: ci sono battaglie nella sua musica, depressione, ascese, trionfi ed estasi. La Settima Sinfonia è celebre anche perché rappresenta il suo primo vero successo di pubblico dopo anni di incomprensione.
L’inizio è stupendo: sul tremolo degli archi che sembra venire da mondi ultraterreni – come se si fosse in un film di fantascienza (e ricordo quando la dirigeva Giulini, sembrava scendere da un paradiso) – si espande una ampia melodia: prima affidata al corno, a viole e violoncelli dal suono morbido e profondo, poi ripresa dai violini e dai legni, sollevandola in alto come fosse una costellazione. Melodia che si incontra con altri temi ma non si fonde. La musica di Bruckner è fatta di blocchi che tentano un dialogo ma restano ciascuno sé stesso. Non è Beethoven che nelle sinfonie parte da una idea, la sviluppa e poi la conchiude. Bruckner si tormenta, scava dentro di sé, anche negli altri tempi, come nel secondo molto solenne e lento: una preghiera vastissima e dolente sulla morte – anche dell’adorato Wagner. È contemplazione. Il dolore indagato come parola larga, avvolgente che non lascia spazio se non alla sua stessa essenza di luce intrisa di lacrime e di speranza. Bruckner qui diventa un grande, capace di esprimere qualcosa di universale. Tumulto ed anche scherzo innocente negli altri due tempi sino al finale, che chiuderà la sinfonia dopo esaltazioni e dubbi in un trionfo, luminosamente alto e grande: la lotta è finita, la pace ha vinto.
Pappano ha diretto con una passione e una attenzione commovente l’orchestra-capolavoro a sé per precisione, ritmo e bellezza di suono – memorabili sempre violini e violoncelli -: una “syn-fonia” appunto, cioè tante voci in un solo e diverso suono. Grande musica, grande interpretazione. E rivelazione di uno spirito musicale umile e vasto.
Prof. Mario Dal Bello