Come dimenticare certe delicate fotografie di papa Bendetto XVI al pianoforte? Era già papa, dunque già indossava la veste bianca, era seduto a un modesto piano verticale, e veniva ripreso di tre quarti posteriore, attento alla lettura dello spartito, le mani sulla tastiera. Forse suonava il suo Mozart, forse Beethoven, forse quel Bruckner di cui parlò nell’ottobre 2008 nella basilica romana di san Paolo fuori le Mura dopo avere ascoltato i Wiener Philarmoniker in un concerto offerto dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra in occasione del sinodo dei vescovi. Disse allora della sesta sinfonia che traduceva “la fede del suo autore, capace di trasmettere con le sue composizioni una visione religiosa della vita e della storia”.
E’ riassunto tutto qui il mistero dell’arte sacra, dagli inizi catacombali dei primissimi secoli del cristianesimo a un presente altrettanto e diversamente catacombale: trasmettere una visione religiosa della vita e della storia.
Di Bruckner, in quella occasione, il papa disse ancora che aveva “portato alle estreme conseguenze il processo romantico di interiorizzazione”. Tuttora viviamo tempi estremi di interiorizzazione ed è lecito chiedersi se oggi sia un bene, se ciò non ci ricacci piuttosto nelle catacombe di noi stessi e della inconsapevole adesione al non-pensiero-unico-dominante. Quella evocata “visione religiosa della vita e della storia” rischia infatti di perdersi oggi in esercizi talvolta troppo autoreferenziali, in esperienze fine a se stesse, prive di orizzonte, sigillate nella quiete un po’ artificiosa, benché consolatoria, di un piccolo atelier o di una ristretta cerchia.
“Forse vi è capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo, una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma qualcosa di più grande”.
Sono sempre parole di Benedetto XVI, che così si esprimeva in udienza generale il 31 agosto 2011. E’ proprio la tensione al “più grande” il differenziale dell’esperienza artistica autentica, immediatamente riconoscibile da parte di chi crea, così come da parte di chi guarda, ascolta o legge.
Ma siamo ancora capaci di fronteggiare quel grande “più grande”? E di produrlo? O ci accontentiamo piuttosto di mimarlo, di replicarlo come “vernice superficiale”, per usare le parole dell’ altro grande papa sensibile alle arti quale fu Paolo VI?
Quel “più grande” che emoziona irresistibilmente e inequivocabilmente è “come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano” (ancora parole di Benedetto XVI) e coincide con quel senso religioso sulla vita e sulla storia, che il minimalismo cui vorrebbe ridurci l’attuale non-pensiero-unico-dominante, sembrerebbe invece voler annientare.
Di qui forse la missione più urgente dell’artista, oggi: riaddestrarsi e riaddestrarci a grandezza di sguardo e di ascolto. E’ una opportunità potente, impegnativa e anche rischiosa, che coinvolge la dimensione esistenziale e testimoniale di tutti noi in tutti i momenti del nostro quotidiano, inclusi i più apparentemente insignificanti e omologati. Riconoscere la grandezza di fronte alla Cappella Sistina o in una sinfonia di Bruckner è facilissimo, quasi scontato. Snidarla anche dentro un supermercato, o in una start-up, o nei messaggi scambiati tramite un social o in un esperimento di “second life” può sembrare aberrante, quasi scandaloso. Quando ci capita di pensarlo, ricordiamoci però che lo Spirito soffia dove vuole. E che, come diceva Giovanni Paolo II ad alcuni giovani (Viterbo, 27 maggio 1984), “il cristiano è chiamato ad essere un uomo nuovo nel modo di pensare, e anche “nuovo nel modo di sentire…”
Laura De Luca, Radio Vaticana