Riscoprire Botticelli 

 

Pittore di Madonne soavi, di Veneri neoplatoniche, dalla linea elegante e dal colore raffinato, Sandro Botticelli negli anni 1470-1480, ormai maturo dopo l’esperienza nella bottega del Pollaiolo, esprime un ideale di bellezza nostalgica del più puro ellenismo, intessuta di un clima di elegia che traspare impercettibile come malinconia dentro e al di sotto delle sue opere di contemplazione.

È un sogno, un desiderio di far rivivere un tempo della storia e dell’animo di grazia ed armonia, di una umanità al centro di un universo pacificato, per cui che siano Madonne o Veneri l’approccio è identico: luce, corpo delicato, che accomuna la Venere marina dalla sensualità purificata seppur reale alla infinita elegia della Madonna della melagrana o del Magnificat, al concerto armonico della Primavera (Firenze, Uffizi), alla calma di Venere e Marte (Londra, National Gallery). È la religione della contemplazione, dell’anima che rimane incantata dal desiderio di una bellezza senza confini e senza macchia.

Artista finissimo, memore cosciente del mondo fatato del tardogotico che non rimuove ma “accorda” con quello di un rinascimento classicheggiante più che classico, Botticelli pare non conoscere dolore se non in trame sottilissime, velate e difficili da cogliere. Nel clima di una armonia che l’ambiente mediceo con un poeta come Agnolo Poliziano e un mecenate come Lorenzo il Magnifico incoraggiava e riviveva, il sogno antico si rendeva presente, si attualizzava liberando il pensiero e creava nuove forme, una nuova musicalissima armonia priva di incrostazioni: solo luce, solo eleganza, solo purezza.  Si direbbe, ma non è vero perché il corpo ha la sua consistenza anche se velato, solo anima.

Vi si aggregarono in molti, compresi Perugino e Pintoricchio, ma Botticelli brillava di luce propria, di una sua voce specifica, quella della elegia, della nostalgia vissuta come certezza, come il ritorno in modo nuovo di un mondo antico e diverso, di una possibile, visibile felicità, come nella danza tra i fiori della Primavera o nelle pale d’altare con i santi in coro intorno alla Vergine o nelle aeree Annunciazioni (Firenze, Uffizi). Più che negli affreschi della Cappella Sistina Botticelli, che non si ritrovava molto nel “fare grande”, poetava nelle opere su tavola, piccole o grandi o nel disegno, come nelle illustrazioni delicatissime della Commedia dantesca, dove Sandro arriva ad una linea spirituale che ha del soprannaturale, specie nel Paradiso.

Questo idillio dell’anima e dell’arte che forma la lingua specifica di Botticelli si infrange tuttavia con la realtà dei conflitti, delle morti ed il sogno neo-ellenistico si rivela per quello che è: una bellissima, delicatissima illusione. Una speranza di felicità naturale tuttavia non delusa, ma perseguitata dalla disarmonia degli eventi. La predicazione focosa del Savonarola, la morte di Lorenzo tolgono il velo del sogno, l’elegia di Sandro si fa sofferenza, il dolore angoscia, l’angoscia contemplazione mistica e pathos. La luce, la sua luce tanto cristallina e bianca, si adombra e si trasforma in struggimento nei Compianti a Milano (Poldi Pezzoli) e a Monaco (Alte Pinakotek) (Poldi Pezzoli), in pathos nel Crocifisso di Cambridge, in sentimento d’amore mistico in bianco-azzurro nella Natività di Londra (National Gallery, 1500-1501).

Botticelli non è andato indietro, come tanti pensavano al suo tempo – il tempo di Leonardo e dei giovani Michelangelo e Raffaello –   e pensano ancora.  È andato avanti, ha svelato altre corde del suo animo, senza perdere in finezza.  È giunto dove la sua natura poetica lo aveva destinato, anzi pre-destinato. Cioè alla creazione di una “altra” armonia, quella dell’essenziale, della libertà anche da ogni regola – di spazio di proporzioni di colore, come nella Natività –  per andare “oltre”, anche il suo tempo, dissolvendo la forma in immaginazione pura e limpida, in sentimento assoluto.  Prima di Michelangelo e Tiziano anziani. Solo, incompreso, ma grande.

Prof. Mario Dal Bello