Mi sono sempre opposto all’utilizzo indiscriminato della parola “giovani”. Si tratta di un termine abusato, o comunque mal impiegato, che ha assunto ormai una sfera di significati che poco gli compete, talvolta sminuenti se non proprio negativi. Essere giovani significa essere inesperti, significa essere guardati con aria di sufficienza o al più con inevitabile diffidenza, significa essere trattati troppo spesso con bonario paternalismo, significa ottenere tante pacche sulle spalle e poco credito. Oltre a tutto questo, definire “giovani” delle persone che hanno superato i trent’anni mi è sempre parso quantomeno un azzardo. Mi accingevo pertanto a scrivere una sorta di infiammato trattatello contra iuventutem, quando le fonti che avrei addotto mi si sono rivoltate contro.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita” proclama Dante al principio della Comedia, riferendosi ai suoi trentacinque anni. Ho sempre dato per scontato intendesse rimarcare la raggiunta maturazione personale – su una cattiva strada – e dunque motivare la necessaria terapia d’urto che ne seguì. D’altronde come può un uomo sentirsi giovane nell’età in cui tutto comincia inevitabilmente a prendere velocità sul declivio opposto della vita? Ancor più in un’epoca in cui l’esistenza di un uomo era regolata su ritmi ben più serrati di quelli odierni, e la formazione dell’individuo ridotta allo stretto necessario per un efficace e proficuo inserimento nella società. A riprova di questo, avevo bisogno di una fonte autorevole e indiscutibile, che definisse una volta per tutte un limite alla giovinezza, valido tanto per me quanto per un uomo del XIII secolo, e per qualunque epoca antecedente: ho quindi rispolverato Isidoro di Siviglia, nella convinzione che avrebbe definitivamente incontrovertibilmente suggellato la mia tesi.
“Quarta [aetas] iuventus firmissima aetatum omnium, finiens in quinquagesimo anno”. Per utilizzare un neologismo: blastato da Isidoro di Siviglia.
Cinquant’anni sono tanti. Ben oltre la più rosea delle ipotesi di mezza età. Detto poi da un uomo nato quando Giustiniano era ancora in vita, in un momento in cui arrivare a compiere gli anni a doppia cifra era già un traguardo per nulla scontato, pone qualche spunto di riflessione. Come si definisce allora la giovinezza?
Poche persone, per quanto ne so, sono disposte a definirsi giovani. Sembra che nessuno in coscienza, abbia pure vent’anni, si senta a suo agio con questa etichetta. Ognuno, d’altro canto, definisce giovane chiunque anagraficamente più giovane di lui. Capita così che il ventenne definisca giovane il quindicenne e non se stesso, il trentenne il ventenne, il quarantenne il trentenne e così via. Così via, s’intende, non all’infinito, ma finché realisticamente sostenibile. Stiamo procedendo per banalità, ma l’intento non è una insipida relativizzazione del concetto di giovinezza, quanto la presa d’atto che esso è legato ad una visione retrospettiva della vita propria proiettata nell’altro. In altre parole, è impossibile definirsi giovani quanto scontato definire giovani gli altri, enumerando nella propria memoria la quantità di esperienze che colmano il gap anagrafico tra due individui. La distinzione si assottiglia nel corso degli anni, la vita rallenta, le esperienze si riducono, e la distanza scompare nel momento in cui la forza del fare si è completamente esaurita e l’uomo comincia la sua metamorfosi nella fabbrica di ricordi che sarà poi tipica della vecchiaia: ogni individuo, raggiunta questa fase, si assesta nella massa della “quinta età”, l’età della completezza, della raggiunta maturità (gravitas, nelle parole di Isidoro).
Non è tanto il sentirsi giovani quello che conta, ma l’essere percepiti come tali. E da qualche mese il ricambio avvenuto nel direttivo e nell’assemblea dell’UCAI di Brescia è stato letto in questa direzione. La maggioranza di noi ha tra i venti e i cinquant’anni, e nessuno di noi si definisce giovane. Ma tutti ci vedono così, e tanto basta.
Mi è stato proposto di scrivere un articolo di presentazione del repentino rinnovamento e ringiovanimento della sezione UCAI di Brescia. Mi si chiedeva di riflettere su parecchie tematiche, tutte molto generiche, tutte molto interessanti. Credo però ci sia tempo per ognuna di queste, intanto ci si accontenti della prima questione che mi è stata proposta, anche se forse, nella mente di chi la poneva, suonava più come un’attestazione di fatto: “siete giovani, e vedo che nella programmazione date molto spazio ai vostri coetanei e a ragazzi ancor più giovani”. Sì, è vero, ma è un po’ più complicato di così: mi spiego meglio.
Francesco Visentini
Presidente della sezione Ucai di Brescia